L’altra sera tornando a casa dal lavoro ho per caso sbirciato dentro una vetrina, era l’interno di un ristorante ancora vuoto. Il cuoco indossava il classico cappello e sedeva rilassato a un tavolo con il capo inclinato reggendosi con la mano, sembrava annoiato. Guardava fuori, in modo speculare a me che guardavo dentro, ma lui forse non mi scorgeva affatto. È stato un lampo, un frame, che mi ha fatto pensare ai ruoli, alle divise che indossiamo, a ciò che rende riconoscibile il nostro status sociale.
Il cuoco aveva il cappello a fungo, un po’ calato sulla fronte, come nei film, ora che ci ripenso mi viene un dubbio: il cappello c’era o era solo un’astrazione della mia mente?
Quando mi aggiro per le strade, la mia divisa è o non è riconoscibile, ricollegabile alla mia professione. I ruoli, fittizi o reali ci ingabbiano e condizionano?
Quando qualcuno mi chiede che lavoro svolgo, cerco di ricreare nella mia testa un’immagine confortante e chiara per illustrare la mia professione ma ogni volta non ci riesco, e faccio casino. Mi riparo sotto un nome, ma anche questo è equivocabile e ambiguo. Così se dico copywriter pensano a qualcuno che copia testi da qualche parte o che addirittura si occupa di diritti d’autore (copyright), se invece scelgo il termine web editor pensano a qualcosa d’informatico, in modo poco precisato. Allora dico semplicemente: “Io nella vita scrivo”. Loro mi rispondono: “ E …ti pagano?”. Non replico e sorrido in modo imbarazzato.
Delineare le professioni oggi è molto complesso, i nuovi nomi stranieri non aiutano. La nostra formazione nemmeno, la convergenza di abilità e canali rende tutto nebuloso, ma forse ai fini reali è meglio così.
Bisogna saper fare tutto, ampliare le proprie abilità, non fossilizzarsi nelle etichette. Ecco il non essere etichettabili ha vantaggi e pregi, sta nella persona giocare bene, dosando parole in modo furbo.
I punti di vista cambiano la percezione; così mi domando se il cuoco scorgendo la mia figura, abbia riconosciuto in me qualcosa di preciso. Al di fuori io mi vedo ancora una studentessa, magari un’universitaria “attempata”, forse mi fa comodo pensare alla mia immagine così, congelata in un tempo felice e ancora in divenire. Perché forse è proprio questa la verità, siamo ancora in bilico tra quello che abbiamo iniziato a fare e quello che vorremo essere.
Alla fine mi scopro a fantasticare che forse il cuoco era un attore, che in quell’interno si stava girando un film, la telecamera nascosta ero il mio occhio. Ed ecco i miei sogni che prendono il sopravvento di nuovo, si risvegliano da quell’angolo ancora vivo ma sepolto dentro di me, quello che da grande voleva diventare regista, e che ogni tanto mi fa sorridere teneramente ancora. E se l’attrice fossi stata io?
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